La depressione occupa attualmente il quarto posto tra le malattie croniche che provocano disabilità e la sua incidenza è in forte aumento, secondo i dati raccolti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, nel 2020 potrebbe raggiungere il secondo posto. L’Italia non fa eccezione e a dimostrarlo è il consumo di antidepressivi, triplicato, un aumento delle prescrizioni anche nei bambini e negli adolescenti. Ma è corretto che una così ampia porzione di popolazione faccia uno di questi farmaci? La risposta crea dubbi anche in molti esperti.
Attualmente in commercio sono presenti sei classi principali di antidepressivi. Sebbene intervengano su diversi tipi di neurotrasmettitori, gli studi medici hanno dimostrato che la loro efficacia è simile nei confronti dei disturbi depressivi. L’efficacia degli antidepressivi triciclici e degli SSRI, le due classi di antidepressivi più usate, è pressoché identica e la risposta dei malati si attesta attorno al 60-70 per cento.
Ciò che cambia, invece, sono gli effetti collaterali: i triciclici, per esempio, provocano tra gli altri, ipotensione, visione offuscata, stipsi. Per questo motivo l’utilizzo di questi antidepressivi è andato via via diminuendo a favore degli SSRI, più sicuri e ben tollerati.
Il fatto che gli antidepressivi favoriscano un miglioramento dell’umore non deve far pensare che ci sia bisogno di questi farmaci ogni volta che ci si sente tristi. La prescrizione deve avvenire solo quando sono soddisfatti i criteri specifici per la diagnosi di depressione, con la comparsa di sintomi specifici come disturbi del sonno, aumento o diminuzione dell’appetito, mancanza di piacere nelle attività abituali, stanchezza cronica.
Secondo le linee guida italiane, la scelta di un farmaco antidepressivo dovrebbe essere valutata tenendo conto delle caratteristiche del malato, della sua tollerabilità al medicinale e dell’eventuale comparsa di effetti collaterali. I medicinali di prima scelta prescritti in tre casi su quattro, proprio per questi motivi, sono gli SSRI come la fluoxetina, la fluvoxamina, la paroxetina, la sertralina, il citalopram e l’escitalopram.
Dal momento in cui si inizia la cura, bisogna sapere che i primi effetti non saranno riscontrabili prima di due-quattro settimane e che, una volta che i segni della depressione sembrano scomparsi, si dovrebbe proseguire con la stessa dose di antidepressivi per circa 16-20 settimane in modo da mantenere i risultati ottenuti. Superato questo periodo, si può valutare assieme al medico la possibilità di interrompere o meno la terapia, diminuendo la dose in maniera graduale.
Da poco, in Italia è disponibile la agomelatina, un farmaco che agisce sul sistema della melatonina, ovvero sull’ormone che regola ritmi biologici dell’organismo, tra cui il ritmo sonno-veglia. L’agomelatina sembra migliorare il tono dell’umore dei pazienti depressi ed essere efficace contro due disturbi tipici della depressione: l’insonnia e ipervigilanza.