Paradossalmente i pazienti erano meno preoccupati dalle trasfusioni di sangue negli anni ’70 e ’80, quando il sangue era davvero meno sicuro a causa delle minori conoscenze scientifiche sui virus dell’epatite e dell’Hiv e della tecnologia meno avanzata con la quale si facevano i controlli. Oggi i test sul sangue donato per la ricerca di infezioni o altre malattie, così come le tecnologie utilizzate, sono molto accurati e il rischio di un possibile contagio è nell’ordine di 1 su 500 mila. Attraverso la ricerca del Dna o Rna virale, si è in grado di trovare non solo l’eventuale infezione in atto, ma la presenza stessa del virus anche se il sistema immunitario del donatore non ha ancora reagito contro l’agente infettivo.
Sacche tracciate e tracciabili. Il sangue proveniente dai donatori e raccolto nei centri trasfusionali segue accurati e codificati protocolli per la raccolta e la conservazione: ogni sacca è sempre tracciata e tracciabile ed è conservata in apposite emoteche, ovvero celle frigorifere a temperatura controllata, per 42 giorni se concentrati di globuli rossi, per cinque giorni in agitatori a 20°C se si tratta di sole piastrine. Il plasma, invece, può essere congelato.
Il braccialetto contro gli scambi. Un secondo tipo di rischio è quello della trasfusione di una sacca di sangue di un gruppo sanguigno incompatibile con quello del paziente. Questo rischio può arrivare a 1 su diecimila trasfusioni. Il risultato dello scambio di sacche, è una pericolosa reazione immunitaria. Per ridurre il numero di incidenti trasfusionali in molti ospedali si adotta il braccialetto elettronico: un sistema di controllo che grazie a un sistema informatico controlla i dati del paziente e li confronta con quelli della sacca.
Raccolto prima dell’intervento. In caso di interventi chirurgici programmati, si può ricorrere a due diverse tecniche di autotrasfusione. Solitamente vengono proposti in casi selezionati in ortopedia e cardiochirurgia, dove c’è più rischio di grosse perdite di sangue. La prima tecnica è quella della raccolta di alcune sacche di sangue del paziente, con due – tre prelievi nel mese precedente l’intervento, conservate per le necessità personali durante l’operazione. I prelievi rendono, inoltre, il paziente leggermente anemico per far sì che perda meno sangue durante l’intervento.
Il recupero intraoperatorio. Questa tecnica non mette totalmente al riparo dal rischio di scambio di sacche, visto che il sangue viene raccolto e conservato con le stesse tecniche del sangue da donazione. Per questo motivo ultimamente vengono considerate più sicure ed efficaci le tecniche definite di recupero intraoperatorio. Si tratta di un tipo di macchinario che preleva il sangue perso durante l’intervento in sala operatoria, effettua un lavaggio fisiologico per eliminare eventuali coaguli, e successivamente separa i globuli rossi, che poi vengono immessi nuovamente nel circolo sanguigno. È, infatti, questa parte del sangue, deputata al trasporto di ossigeno ai tessuti dell’organismo, quella di ripristinare in caso di emorragia.